LA VALLE DEL SABATO
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a II° Edizione di questo particolare raduno svoltasi domenica 07 agosto u.s. ha avuto come riferimento culturale l’amena vallata del Fiume Sabato lungo la quale si è snodata la carovana delle auto d’epoca.
Secondo alcuni studiosi il nome Sabato è un chiaro riferimento alla popolazione dei Sabiniti che si spinsero in queste terre dalla Sabina, antica regione dell’attuale Lazio, intorno all’VIII secolo a.C., occupando vaste aree ove già esisteva una importante e grande comunità etnica: quella degli OSCHI o OSCI.
Secondo altri, invece, il nome Sabato lo si assocerebbe ai ben noti riti Sabbatici consumati dalle famose Streghe che si riunivano in feste orgiastiche in diversi luoghi sempre nella vallata del fiume.
La zona di attraversamento più spettacolare riguarda la profonda erosione determinata dalle acque del fiume nelle rocce alla base dei conglomerati dello Stretto di Barba, a valle di Ceppaloni (BN) e di Chianche (AV).
L’area di erosione della gola viene ricordata da tutti non tanto come strettoia nella quale i briganti ordivano le loro rapine, quanto perché, leggendariamente, luogo in cui si radunavano le famose “streghe di Benevento” per solennizzare i “sabba” pagani, durante il periodo della dominazione longobarda
Proprio qui, secondo le leggende, proprio in prossimità delle forre, sarebbe sorto il famoso albero di noce, attorno al quale si consumavano i rituali pagani, e che fu sradicato con un’ascia da San Barbato, al tempo Vescovo di Benevento, intorno all’anno 663 dopo che venne sconfitto il paganesimo tanto diffuso tra la popolazione longobarda.
Ma chi erano queste streghe dall’aspetto brutto e malefico che volavano cavalcando scope di saggina?
Per parlarne dobbiamo risalire al periodo della dominazione longobarda che fece di Benevento la capitale di un ducato che comprendeva quasi tutta l’Italia meridionale.
Nella fase iniziale dell’occupazione della Città, i guerrieri longobardi si accamparono negli immediati dintorni dell’abitato e qui, di notte, accendevano fuochi bivaccavano, praticavano riti pagani, si ubriacavano e si accoppiavano con femmine beneventane compiacenti o costrette ad abbandonarsi a festini orgiastici.
Dunque, nell’uno o nell’altro caso, “volenti” o “dolenti” le donne si abbandonavano a sfrenate danze che si celebravano sotto un albero di noce (albero quest’ultimo assai diffuso nell’agro beneventano) in almeno tre differenti zone: una è proprio quella cui si riferisce la precedente foto, ovvero allo Stretto di Barba sulla strada statale N.88 o Dei due Principati per Avellino.
Di qui, la fama del fiume come luogo dei “sabba” ovvero di quelle riunioni che avvenivano ogni sabato tra leggendarie “STREGHE” le quali, di notte ed alla luce di fuochi, si eccitavano in sfrenate danze attorno al noce ai cui rami veniva sospesa la pelle sanguinante di un caprone.
Quest’ultimo diveniva bersaglio di frecce che ne facevano brandelli di cui si cibavano i partecipanti durante satanici riti e diabolici accoppiamenti.
Molte donne delle comunità locali cominciarono a partecipare volentieri a queste orgiastiche riunioni notturne, nude o cavalcando un caprone o messe all’incontrario sul dorso di un cavallo; in questo modo, assecondando gli usi ed i costumi pagani dei longobardi, suscitavano, nel buon costume del contado, sospetto di possessioni demoniache e di potenze malefiche.
La ritualità pagana dei longobardi ebbe termine intorno all’anno 663……….ma la leggenda delle streghe continua ancora oggi come ricordo di un paganesimo non completamente sconfitto.
Lo stretto di Barba è una caratteristica gola che rappresentava un passaggio obbligato di notevole importanza strategica e che separava i Sanniti Irpini che occupavano il territorio di Chianche, dai Romani che avevano conquistato il Sannio beneventano.
Rappresentava un punto d’incrocio di diverse direttrici viarie tra cui l’Appia e l’Aquilia per cui gli storici fanno cenno ad una antica roccaforte insediata nell’agglomerato di BALBA (oggi per deformazione dialettale “Barba”) a difesa dello stretto, detto appunto di “Balba”, in contrapposizione al “castrum” realizzato dai romani in destra idrografica del F. Sabato.
Balba, oggi attuale Barba, è uno dei numerosi Casali di Ceppaloni in sinistra idrografica del F. Sabato e non corrisponde all’antico insediamento.
Diverse e contraddittorie sono le teorie degli storici che fanno derivare il nome Ceppaloni, dato al Comune, da “ceppe lunghe” o, molto più probabilmente dal latino “ceps latrorum” in relazione alla posizione strategica sullo stretto a valle che rappresentava il punto di appostamento di guerrieri, briganti, ladri e malandrini per la facilità di poter sbarrare il passo a chiunque osasse transitarvi.
Il Comune di Ceppaloni ha una storia antichissima quale roccaforte dei Sanniti beneventani come è testimoniato dalle numerose tombe rinvenute e contenenti lucerne, anforette,vasi lacrimali e rudimentali coltelli in pietra selcifera.
Gli intrigati avvenimenti storici s’intrigano tra donazioni e vendite fino al 1129 allorchè Papa Onorio scelse Ceppaloni come residenza ma, le successive mancanze di fedeltà, e le continue battaglie per il possesso dei feudi fecero sì che il Castello di cui si era dotato in contrapposizione a quello realizzato nel punto più elevato di Chianche, in provincia di Avellino ed in destra idrografica del F. Sabato, venisse distrutto.
I due castelli, attualmente sottoposti ad importanti interventi di recupero e sistemazione da parte della Soprintendenza ai Monumenti di Salerno, avevano dunque il medesimo scopo; quello del controllo dello stretto di Barba che venne definito “il passo più geloso del tempo.
La parte più antica del Castello di Chianche è rappresentata dal Torrione, in via S. Felice, sorto sulle rovine dell’antico castrum ovvero della fortificazione di epoca romana.
L’etimologia di Chianche è chiaro riferimento alle “plancae” ovvero, come in precedenza già detto, ai lastroni poligonali in pietra calcarea locale di cui i romani si servivano per il lastricamento della strade.
Oggi il Comune di Chianche ed il Casale di Chianchetelle rivestono una particolare importanza nell’economia della zona essendo entrati a far parte del Consorzio di produzione del ben noto vino “ il greco di Tufo”.
Il vino ha ottenuto il riconoscimento di origine controllata con D.M. 18.07.2003; si tratta di un vino di colore paglierino o giallo dorato dal sapore asciutto ed assai gradevole ottenuto dalle uve dell’Aminea Gemina importata dalla Tessaglia prima dell’era cristiana ed ampiamente apprezzato dai romani tanto da essere più volte menzionato negli scritti di Catone e Virgilio.
Plinio il Vecchio lo decantava tanto da scrivere che nei banchetti veniva versato una sola volta per poterne meglio guastare il delicato sapore.
Un affresco pompeiano, risalente al I° secolo a.C. lo riproduce giacché i più antichi vitigni vennero impiantati sulle pendici del Vesuvio ed il suo orinario nome era “ vino greco”.
Il Greco di Tufo attualmente rappresenta una delle massime espressioni della tradizione vinicola italiana.
Michele Benvenuto